venerdì 8 luglio 2016

Dāccā: svadēśī, una pagina di storia


...  la storia non giustifica ma spesso chiarifica il presente, questo il motivo della pagina che sta per articolarsi sull’India agli albori del XX secolo, momento  in cui l’emergere della coscienza nazionale, sorta nel secolo precedente quale prodotto delle reazioni al consolidarsi del potere britannico, prese sempre più corpo. Nei primi anni del ‘900 non vi fu indiano, qualunque fosse la religione, la casta, la provenienza regionale, che non si rendesse conto del carattere “straniero” dei ib cristiani che governavano la loro terra, bastava che per un motivo o per l’altro venisse a contatto con i dominatori.
Eppure l’India aveva visto in passato altre invasioni, vedi gli Arii, vedi i Moghul, ma sempre, dopo il primo momento, s’era verificato incontro, scambio, e imperi “indiani” erano sorti. I britannici invece comandavano e controllavano il paese con il proprio rāja distante migliaia e migliaia di chilometri, senza tener in alcun conto quella che era stata ed era la ricca tradizione culturale, sottovalutandola quando non denigrandola in ogni campo dal religioso, al politico, al giuridico, all’economico, sostituendo l’intero assetto sociale del paese con un processo di unificazione e “modernizzazione” prettamente britannico, diffuso in maniera capillare dai missionari così come dall’istituzione del sistema scolastico di stampo inglese e dall’apertura al commercio privato con lo straniero, che, accanto alle già esistenti diversificazioni di casta, aveva creato ulteriore discriminazione sociale il cui fine agevolava gli interessi economici britannici accrescendone il profitto.
Questa situazione, caratterizzata dalla grande capacità inglese di sublimare interessi e identità personali a leggi “impersonali” atte a perseguire “più alti” fini di utilità nazionale, intendendo per nazionale l’isola atlantica ed il suo impero, fece sì che progredisse sempre più la coscienza nazionale indiana di cui sopra. Gli indiani presero consapevolezza di quanto distanti fossero i funzionari governativi britannici dalle loro peculiarità culturali, sociali, economiche e politiche. Così, mentre vicerè inglesi si avvicendavano senza nulla cambiare al loro governare, il primo grande Movimento Nazionalista Indiano sorto il secolo precedente, prese a figliare. I movimenti che originò furono moltissimi, non vi fu regione che non ne avesse almeno uno. Da principio le espressioni dei movimenti nazionalisti tentarono di stabilire un dialogo con il governo straniero, puntando come era stato in passato su un incontro di scambio culturale. Centinaia furono le riviste di cultura pubblicate in quegli anni  atte a sottolineare attraverso istituzioni moderne la loro diversità tradizionale, molte furono le personalità intellettuali che si adoprarono a che l’incontro con gli inglesi si verificasse malgrado lo scalpitio giovanile propendesse per le insurrezioni armate. La politica britannica non solo non concesse nulla ma, nella paura di perdere il potere acquisito, alle manifestazioni pacifiche rispose con repressioni e violenze d’ogni tipo, dalla negazione di diritti sociali, politici, giuridici, alle violenze corporali.
La goccia che fece traboccare il vaso accendendo ancor più l’animo indiano fu la partizione dell’allora Bengala, vasta regione la cui pianura sul delta dei due fiumi sacri, la Ganga, per noi Gange, e il Brahmaputra, costituisce ora il Bangladesh.
Era l’ottobre del 1905 quando il vicerè George N.Curzon, decise di spartire la provincia del Bengala in due nuove, Bengala orientale e Assam, senza consultare tanto meno considerare l’opinione indiana. La divisione netta con una linea che tagliava la strada tra Calcutta e l’Hughli, affluente del Gange, portò anche ad una separazione tra la maggioranza indù dai sei milioni di musulmani, entrambi di lingua bengali, questi ultimi  vennero raggruppati  nell’Assam. L’azione fu commentata da un eminente esponente del nazionalismo indiano che, con sapienza e ragionevolezza, si era sempre speso a conquistare il cuore e la mente dei governanti e dei vicerè inglesi, a favore dei tanti appelli alla giustizia politica e all’equità, affinché gli indiani riformassero in prima persona le loro idee sociali e religiose e risolvessero i loro conflitti interni in vista di una indipendenza. Questo esponente era Gopal Krishna Gokhale (1866-1915), che così si espresse:
“ Hanno inflitto una crudele ingiustizia ai nostri fratelli del Bengala, l’intera regione è stata scossa, fin nel profondo, dal dolore e dal risentimento, come mai era accaduto prima d’ora. Lo schema della partizione architettato nelle tenebre e realizzato a dispetto di quella fierissima opposizione che da mezzo secolo a questa parte ha incontrato ogni misura governativa, rimarrà sempre come immagine esatta delle peggiori fattezze che sa assumere l’attuale sistema di gestione burocratica: il suo totale spregio per l’opinione pubblica, le sue arroganti pretese di possedere una saggezza superiore, il suo sordo disprezzo per i più schietti sentimenti della gente, la beffa del suo richiamarsi alla giustizia, la sfacciata preferenza accordata alle necessità del Service invece che a quelle dei sudditi.”
Il Bengala esplose. Si formò il movimento Svadēś, nostro paese. Al grido di Svadēśī, del nostro paese, con riferimento ai prodotti indiani, il boicottaggio alle importazioni inglesi emerse come punto chiave del programma politico del Congresso galvanizzando l’intera nazione. Falò di protesta illuminarono il cielo di Calcutta e il sacro rituale ario del sacrificio ad Agni, il Fuoco, prese a bruciare i sari fabbricati in Inghilterra e tutte le stoffe che provenissero dal Lancashire. E mentre i fuochi ardevano i prodotti inglesi, e lo sdegno cresceva, gli studenti delle università dal sistema di stampo inglese, con programmi corrispondenti, perseguitati e oppressi nelle loro tradizioni culturali, presero a concretizzare i sottili insegnamenti stranieri e quelli tra loro più esaltati si diedero al culto della bomba, cercando di ottenere con il terrore quel che era stato loro sottilmente negato attraverso l’istruzione e la formazione.  
Arabinda Ghosh, più tardi conosciuto come  śri Aurobindo, che da sempre considerava il suolo  dell’India alla stregua della Dea Madre che bisognava amare e difendere, colui che con la sua opera avrebbe onorato la propria terra e che allora le diede la poesia poi musicata da Rabindranath Tagore, che sarebbe divenuta il primo inno del nazionalismo indiano, ritenuto un terrorista, per salvarsi, fu costretto a fuggire dal suo Bengala. Era il 1910.  Rifugiatosi in Francia, śri Aurobindo, a Pondichéry avrebbe fondato poi il suo āśram ch’era il 1914.
Al grido di Svadēśī, argomenti un tempo moderati si trasformarono in manifestazioni di rabbia, in proteste furibonde in cui tutti si trovarono uniti, gli zamindār, proprietari terreni spesso appartenenti a famiglie reali, si unirono agli insegnanti, agli avvocati, ai negozianti, agli spremitori di olio, oltre ogni casta, indù e musulmani uniti nel movimento per l’indipendenza dal dominio straniero ivi compreso lo sfruttamento economico.
Si potrebbe continuare, raccontare aneddoti su aneddoti, continuare a chiarificare la tenebra di qualsivoglia indubbia atrocità, al di là di qualsivoglia sigla vera, falsa o opportunistica che sia. Si potrebbe raccontare anche un aneddoto recente come quello di Dāccā nell’aprile del 2013, quello del palazzo di otto piani che si incendia, che si sbriciola per assenza di adeguate misure di sicurezza, che uccide 381 lavoratori bangladeshi, che producevano capi di abbigliamento per multinazionali occidentali. Potremmo raccontare che l’italiana United Colors of Benetton, ne faceva parte benché abbia negato l’evidenza, ma ci fermiamo qui.
Quella narrata in questa pagina è solo una breve scomoda pagina di storia che sposa un’attualità altrettanto scomoda in cui il Bangladesh cresce del 6% all’anno senza che oltre il 90% dei bangladeshi se ne accorga continuando pertanto ad emigrare. E li vediamo qui a venderci rose, a volte farcene omaggio, a pulire i finestrini delle nostre auto, a ....
Quel che accadeva nell’India coloniale accade ancora in Bangladesh, e non solo, la selvaggia economia internazionale, con la sua selvaggia globalizzazione, con le sue selvagge regole internazionali anch'esse, procura danni che fanno esplodere la violenza il cui nome non ha importanza, mentre il terrorismo così detto islamico continua ad essere un’arma usata con competenza dopo aver disintegrato gli stati laici, regionali più o meno, che non avrebbero permesso la sua ascesa forse neppure la sua formazione.
Marika Guerrini

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