mercoledì 31 maggio 2017

Kabul attentato- taliban: Non siamo stati noi


...Non siamo stati noi, parole del portavoce dei Taliban rilasciate anche ad Al Jazeera. Dichiarazione a distanziarsi dall'attentato di stamattina a Kabul, piazza Zanbaq, centro città, zona diplomatica: 90 morti, circa 400 feriti ad ora.  Dichiarazione a smentire quel che da anni, quindici, la prima volta era la primavera del 2002, si va raccontando sotto il nome "Offensiva di primavera" seguita dalla storiella delle nevi che si sciolgono, delle strade che si sgombrano dai ghiacci, dei gruppi fondamentalisti armati che si liberano dalle "catene". Era al-Qaeda, ora in disuso, erano i taliban, sempre attuali, è il Daesh, e Daesh è. Ma quel che conta ancor più è che l' "Offensiva di primavera" coincida con il mese sacro del'Islam iniziato lo scorso venerdì, Ramadan, parola di cui anche i più ignoranti in occidente hanno imparato l'esistenza. Quel che conta è che il Ramadan, il suo contenuto religioso, cozzi con gli attacchi, volendo credere che siano di natura affermante un certo credo, perché mai ortodossi musulmani macchierebbero il Ramadan, per di più in un paese sunnita come loro, perché qui non si parla di paese sciita come Iran etc., quindi alcuna diatriba interna alla religione musulmana, qui si parla di Paese non solo musulmano ma per di più sunnita.  
Comunque è evidente che tutte le nostre parole siano inutili, è evidente che tutte le parole siano inutili, visto che si ripetono da anni e che non hanno cambiato, cambiano  o cambieranno quel che tutti sanno, a meno che con siano affetti da ebetismo acuto.
Nel caso dell'Afghānistān la sintesi, scritta riscritta e ripetuta anch'essa, è: il Paese va tenuto nel caos della guerra, la sua distruzione, la morte, la malattia, la povertà della sua gente non interessa minimamente l'occidente, avvezzo ormai ad immagini di afghana distruzione e morte, occidente che neppure sospetta cosa potesse essere quel Paese prima di tutto questo. Le forze di coalizione con i vari quartier generali dei vari Isas, Nato o quel che sia, sono lì non per combattere tutto questo, terrorismo incluso, ma accertarsi che tutto questo continui. I gruppi armati sono armati da Sauditi e Stati Uniti mentre Israele plaude. Armati, organizzati, controllati, guidati. Tutto il resto è messa in scena.
Andate a rileggere:

Marika Guerrini



venerdì 26 maggio 2017

una pagina russa non mia

... è una pagina diversa questa, una pagina non mia, una pagina di luce  al femminile, pagina su di un archetipo. Pagina tracciata da Daniele Dal Bosco, avvezzo a tracciare pagine interessanti quanto luminose. Me l'ha segnalata e nello scorrere le parole si è ampliato il moto del diaframma, armonizzato, la pagina si è fatta respiro. Ed è lo squarcio d'un respiro che vi propongo, null'altro.


"Cenni storici sull’archetipo femminile nella Madre Russia - di Daniele Dal Bosco- 

Nel linguaggio comune odierno si usa sovente l’espressione Madre Russia, preceduta ed incoronata, talvolta, dagli aggettivi Grande o Santa. Quest’accostamento tra l’area russa e l’archetipo femminile materno pare avere origini medievali. La prevalente attività agricola e l’estensione della terra russa portarono spesso all’associazione con l’aspetto materno, della fecondità, non dissimilmente da quanto accade con l’espressione Madre Terra. Non solo la terra in sé, ma anche aspetti specifici di natura ricevevano epiteti materni, si pensi in particolare al diminutivo materno rivolto a fiumi quali Don Matushka(Матушка), Dniepr Matushka e soprattutto quel Volga Matushka spesso citato nella letteratura e nel folklore russo.Va ricordata, a tal proposito, anche l’unica dèa che Vladimir il Grande adorava nel suo santuario di Kiev, la dèa Mokosh (Мокошь), dèa della terra ed associata a Mat Zemlya, forse la dèa della terra più adorata nel mondo slavo, quantomeno fino al Medioevo. Connessi all’archetipo materno sono anche due simboli tra i più rappresentativi della Russia: le icone mariane e la matrioshka (матрёшка).Tra le icone rappresentative della Madonna, rammentiamo in primis la celebre Theotokos di Vladimir, conosciuta anche come Madonna della tenerezza o Madonna di Vladimir, risalente al XII secolo e considerata la protettrice della Russia. Ma pensiamo anche alla Madonna Odigitria, due splendidi esempi della quale sono la Madonna di Smolensk e la Madonna Iverskaja ma anche, in una sua variante, la Madonna di Kazan. O ancora, le varie icone mariane che rappresentano la protezione della Vergine.
La matrioshka è invece un’invenzione recente: venne ideata verso la fine dell’Ottocento all’interno del circolo culturale di Abramcevo di Savva Mamontov, un importante imprenditore e mecenate dell’epoca, divenendo maggiormente conosciuta dal pubblico internazionale in seguito alla premiazione durante l’Esposizione universale di Parigi del 1900. Una leggenda interessante fa risalire la matrioshka alla dea Jumala degli Urali, dèa solare della quale i vichinghi andarono in cerca, senza successo, e della quale pensavano che fosse interamente d’oro. Nelle culture ugro-finniche, il Sole aveva una connotazione tipicamente femminile, una “donna vestita di Sole” (Ap.12,1), ma talvolta Jumala veniva anche inteso come il dio del cielo.
Il suolo stesso, nella tradizione contadina, erababa (баба), al femminile. La Matushka Rus’, il suolo della Madre Russia, sposata al Batiushka Tsar’, lo Zar come aspetto padre. Un altro simbolo materno presente nel folklore russo è, ad esempio,Baba Jaga (Баба-яга): una strega talvolta associata ad un aspetto materno, una sorta di divinità primordiale cattiva ma talvolta anche benigna, per la psicologa junghiana Clarissa Pinkola-Estés una sorta di archetipo universale della madre selvaggia, ctonia. Anche lo storico e filosofo Berdyaev sosteneva che la «categoria fondamentale in Russia è la maternità». Lo storico russo G. P. Fedotov, nella sua La mente religiosa russa affermava: «Ad ogni passo, studiando la religione popolare russa, si incontra il costante desiderio di un grande potere divino femminile…è forse troppo ipotizzare, sulla base di questa propensione religiosa, la presenza di elementi sparsi del culto della Grande Dea che un tempo regnò sulle immense pianure russe?»
Ma l’archetipo femminile, contrapposto a quello maschile, venne associato anche alla città di Mosca. Gogol’, nelle sue Note pietroburghesi (1836) definì Mosca «una vecchia massaia che cuoce le frittelle nel forno, guardando da lontano e ascolta senza alzarsi dalla poltrona quel che le si racconta sulle cose del mondo», al contrario Pietroburgo veniva rappresentato al maschile come «un giovanotto svelto che non sta mai in casa e, sempre ben vestito, pavoneggiandosi di fronte all’Europa, se la fa con quelli d’oltre mare»
La storia stessa della Russia riporta numerose figure femminili di primo piano. Negli ultimi secoli, pensiamo al ruolo di Sofia Alekseevna Romanova, che funse da reggente tra il 1682 ed il 1689 dei due fratelli minori Pietro I (il futuro Pietro il Grande) ed Ivan V; Caterina I, moglie dello stesso Pietro il Grande e co-regnante con il marito (1724-1725) ed alla morte di quest’ultimo Imperatrice di tutte le Russie (1725-1727). E ancora, Anna Ivanovna Romanova, figlia di Ivan V ed Imperatrice di tutte le Russie dal 1730 al 1740, anno della sua morte; Elisabetta, figlia di Pietro il Grande e di Caterina I, che divenne Imperatrice di tutte le Russie dal 1741 fino alla sua morte nel 1762; e soprattutto il lungo regno di Caterina II, Imperatrice di tutte le Russie dal 1762 al 1796 e sotto il cui regno l’Impero russo conseguì un notevole sviluppo culturale ed economico. Fu l’ultimo caso di regnante donna dell’Impero, dato che il figlio Paolo I promulgò la legge di primogenitura maschile, consentendo una regnante donna solo nel caso di assenza di uomini.
Ma le figure femminili più importanti della storia russa furono forse due donne che ebbero un ruolo determinante nella conversione della Russia al cristianesimo, per quanto il riconoscimento di tale importanza fu postumo: Olga di Kiev ed Anna Porfirogenita.
Secondo la Cronaca di Nestore (1116 circa), Olga fu la moglie del principe Igor, figlio di Rurik, capostipite della Rus’ di Kiev. Più saggia di tutti gli altri uomini, divenne cristiana nel 957 presso Costantinopoli. Secondo lo storico S. M. Solov’ev, padre del più famoso filosofo e mistico Vladimir Sergeevič, «in quanto donna, Olga era più portata per gli affari domestici, le questioni interne. Similmente, in quanto donna, era particolarmente incline al Cristianesimo». Olga governò la Rus’ di Kiev anche mentre il figlio Sviatoslav era impegnato in battaglia in terre lontane. Olga si diresse a Costantinopoli con un’ambasciata di quasi duecento notabili, ufficiali, mercanti e militari, metà dei quali erano mercanti. Scendendo lungo le rive del fiume Dniepr e costeggiando il Mar Nero raggiunsero la grande capitale bizantina.
Simbolicamente, Olga si presentò davanti all’imperatore Costantino VII con un seguito di donne nelle prime file, con gli uomini che seguivano nelle retrovie. Costantino comprese l’importanza di quest’innovazione e rispose a sua volta facendo accogliere Olga dalla consorte Elena Lecapena e dal suo seguito di donne. La sua spedizione a Costantinopoli non solo fu un successo diplomatico, ma le permise di venire battezzata direttamente presso la sede patriarcale di Costantinopoli dal patriarca Polieucte, con padrino l’Imperatore Costantino medesimo, assumendo il nome di Elena e divenendo la prima sovrana cristiana della Rus’ di Kiev. Ella tuttavia non impose mai sui suoi sudditi la religione cristiana: ciò avvenne solo trent’anni dopo con il nipote Vladimir I ed il celebre battesimo della Rus’ nel fiume Dniepr (988).
Ma un’altra donna ebbe un ruolo determinante nella conversione al cristianesimo della Russia: Anna Porfirogenita, principessa bizantina e figlia dell’Imperatore Romano II e dell’Imperatrice Teofano. Unica principessa della dinastia dei Macedoni ad aver sposato uno straniero, divenne moglie di Vladimir I di Kiev nell’ambito di un accordo militare stipulato da quest’ultimo con l’Imperatore Basilio II, fratello di Anna. Divenuta moglie di Vladimir I nel 988, nello stesso anno riuscì non solo a convertire Vladimir al cristianesimo, ma altresì a spronare il medesimo a far convertire l’intero popolo della Rus’, il quale tuttavia già in parte era divenuto cristiano in precedenza. Gli idoli pagani, quali il dio Perun (Перун), vennero distrutti.
Anna svolse il ruolo di consigliera di Vladimir, gestendo essa stessa un certo numero di terre della Rus’. Varie fonti sono concordi nel ritenere che fu grazie a lei che vennero ufficialmente costruite a Kiev le prime Chiese cristiane. Ella non fu quindi una semplice “merce di scambio” tra Vladimir e Basilio II, ma risultò in realtà fondamentale nel mantenere i rapporti tra Bisanzio e Kiev, inviando anche guerrieri russi a Costantinopoli per la difesa personale del fratello Costantino VIII.
Lo storico russo Nikolaj Karamzin sostenne che «Anna fu uno strumento della benevolenza divina che condusse la Russia fuori dal buio dell’idolatria». Anna non solo aiutò la Russia a cristianizzarsi ma, attraverso il suo matrimonio, le porse anche la prima vera rivendicazione alla discendenza imperiale.
Ecco questa la bella pagina di Dal Bosco pubblicata dal "Centro Studi La Runa", chi volesse può accedervi attraverso il link a seguire.  

Olga di Kiev è venerata come santa tanto dalla chiesa cattolica che dalle chiese ortodosse, diversamente da Anna Porfirogenita. Tuttavia due figli di Anna e Vladimir, i principi Boris e Gleb, furono i primi grandi martiri, poi santificati, della Rus’ cristiana". 
Si spera che l'immersione nella luce di quel Medioevo, a torto ritenuto "buio", che pullulava di inviolati archetipi, possa aver generato nel lettore il respiro di cui sopra. Respiro che s'apre tra gli affanni di questi nostri giorni.

Marika Guerrini

martedì 9 maggio 2017

cosa farebbe oggi Lawrence d'Arabia?

Augustus John, Colonel T.H.Lawrence, 1919
... Condottiero, diplomatico, agente segreto, combattente, guastatore, politico. Spericolato e coraggioso, leale e subdolo, amante dell’archeologia, ma anche umanista, orientalista, conoscitore della cultura araba: lingua, costume, religione.  Al servizio della grande rivolta araba ma innanzi tutto della supremazia inglese. Dall’animo combattuto in questo, un po’ o forse molto. Chissà.
Rincontrato dopo averlo incontrato da bambina come tutti noi o quasi, sullo schermo, per poi ritrovarlo da adolescente tra le pagine da lui segnate, quelle de I Sette pilastri della saggezza, sì, è di lui che si sta trattando, di Thomas Edward Lawrence, ma anche di John H. Ross, ma anche di T.E. Shaw, e potremmo continuare ma ci fermiamo sul suo nome da leggenda: Lawrence d’Arabia.
Leggendario perché qualcuno di nome Thomas Lowell, al tempo, 1919, corrispondente americano, lo aveva seguito in Medio Oriente con un fotografo. Da lì le immagini dell’uomo leggenda nel deserto, tra i beduini, a dorso di cammello, a bordo di una Rolls Royce da guerra, a cavallo di una moto e così via.  E Thomas Lowell, ne aveva fatto una star, nel breve arco di  pochi mesi, tra documentari e fotografie, una star internazionale.
Vita di viaggi quella di Lawrence, da sempre, ancor prima della laurea, fu allora che si innamorò del Medio Oriente, o così credette. Poi, al rientro, gli studi di archeologia di quelle terre, anche di essi si innamorò e tornò in quei lidi. Era il 1910. Per il British Museum andò in missione di scavo in Siria. Poi la guerra, la Grande Guerra, e l’Egitto. E la sua vita si affastellò di dispacci, articoli, relazioni, rapporti, messe a nudo dell’Intelligence britannica, la rete informativa di cui era divenuto colonnello. Poi una presa di posizione a favore degli Arabi per un tradimento degli inglesi, quindi rinnegato il ruolo ufficiale, rifiutati onori, onorificenze e la propria identità. E aveva iniziato da zero. Nel Raf s’era fatto aviere semplice e meccanico di aerei e infermiere e… una, due, tre volte, più volte, nascondendosi al mondo per mostrarsi sotto spoglie dalle diverse identità.
E la conquista di Aqaba e la vittoria di Tafileth e il trionfale ingresso a Damasco e ancora e ancora, io l’ho rincontrato poco fa, a Miran Shah, sulla frontiera indo-afghana di allora, pakistana-afghana di ora, l’ho rincontrato che in quella terra era la primavera del 1928, l’ho rincontrato tra le pagine di un libro di storia che sto scrivendo, curando, un libro che tra alcuni mesi sarà edito, si potrà leggere.
L’ho rincontrato in quei lidi in veste di aviatore, forse, di infermiere, forse, di spia, certo. L’averlo rincontrato nella mia penna, sotto una montagna di finzioni e mezze verità, al tempo pubblicizzate, amplificate a creare leggenda, fra numerosi travestimenti di quest’infelice eroe desideroso e timoroso della celebrità, quest’eroe non eroe, vittima della sua duplicità, questo Lawrence che si mostrava e nascondeva, l’averlo rincontrato a vagare aggirandosi in Afghanistan mentre, tra un complotto e l’altro contro Re Aman'Ullah,  traduceva l’Odissea di Omero, ha fatto nascere in me una domanda: Cosa avrebbe fatto il leggendario Lawrence in questi nostri tempi, cosa avrebbe fatto laggiù, cosa farebbe ora? 
La risposta che mi sono data non è chiara neppure a me stessa, ma tiene conto dei postcolonial studies, come vengono chiamati quegli studi strategici che hanno fatto, fanno, scuola, che non a caso si chiamano Progetto Lawrence, di cui usufruisce l’Us Special Operation Command per addestrare i Seal, i Ranger, i Delta Force e tutte le forze speciali di stanza in Afghanistan e non solo. Studi di strategie tratti, molti, dal suo Encyclopædia Britannica. E allora guerriglia: attentati, imboscate, interventi mirati, micce accese a fomentare contrasti interetnici, distribuzioni di armi, e ancora e ancora. Troppo anche per lui. Sì, troppo anche per lui dato il tragico destino della sua fine detta: incidente, di cui ho sempre sospettato fosse un suicidio. Ma questa è idea personale anche se non sono sola in essa. Ed è questo che lascia in sospeso la domanda fatta a me stessa, il: troppo anche per lui. La sua assurda, probabile sete di giustizia e di assoluto, capovolta ogni volta, smentita ogni volta, portata avanti tra intrighi e menzogne, la stessa che lo aveva portato a rigettare la propria identità, che lo aveva fatto sentire reietto, indegno, all’ultimo gradino della scala, ad espiare, ma che, dopo la negazione di sé, lo porta a Miran Shah, dove l’ho ritrovato con addosso abiti da Mullah, a volte, la lunga Jhubba di seta, altre, con intorno al capo i setaccio o gli imama di vari colori. Dove l’ho ritrovato a camminare tra la gente di quella terra, a farsela amica, a distribuire soldi ed armi tra le tribù, a mentire ancora e ancora, complottare ancora e ancora, contro Re Aman’Ullah a favore sempre e comunque delle dinamiche britanniche di cui non può fare a meno, come una malattia che prende corpo dalle sue stesse ceneri. Come una droga che conosci e sai e non vorresti e assumi. Cosa farebbe ora Lawrence d’Arabia in Afghanistan? Non lo so, forse esattamente quel che altri stanno facendo, fanno o  forse no, per via della differenza di cultura, di stile.
Sue parole da Miran Shah: “ Intorno a noi sono basse colline di porcellana nuda… la quiete è così intensa che mi strofino le orecchie chiedendomi se sto diventando sordo…”. 
Una sua riflessione posteriore: “Tutti gli uomini sono abituati a sognare, ma non tutti allo stesso modo. Quelli che sognano di notte, nei ripostigli polverosi della mente, scoprono, al risveglio, la vacuità di quelle immagini; ma quelli che sono abituati a sognare di giorno sono soggetti pericolosi, perché può accadere che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. Fu quanto io feci.”
Marika Guerrini

immagine : Augustus John, Colonel T.H.Lawrence, 1919